Domani, con La Repubblica, sarà in vendita “La sera andavamo in via Veneto” di Eugenio Scalfari. Ne sono lieto, spero che tanti giornalisti leggano quel libro, specialmente i più giovani. Dal 14 luglio scorso, cioè dalla morte di Scalfari, ho pensato molto anche a quel libro e l’ho rispolverato dalla mia biblioteca. Sono rimasto sorpreso da quanto la notizia della scomparsa del fondatore di Repubblica mi avesse colpito. All’inizio avevo attribuito la tristezza eccessiva che mi ha pervaso ad uno degli effetti dell’età: con gli anni le emozioni si amplificano e in fondo Scalfari è uno dei simboli di un periodo storico che se ne va. Col passar dei giorni però ho scoperto che quella sensazione nascondeva molto di più di una nostalgia dei tempi migliori. Ha a che fare, quel malessere, con il mio mestiere, il nostro mestiere.

D’improvviso ho chiarissimo che quel che sto facendo in questo momento, cioè scrivere sul mio blog, nella solitudine del mio studio, è l’esatto contrario della forte motivazione che mi mosse, in quei primi anni ’80, nello scegliere il mestiere che ho fortissimamente voluto e che ho svolto per tutti questi anni. Non è il gesto che sto compiendo in questo momento che scatenò la spinta fortissima che mi fece deludere le aspettative di mia madre. Senza farmelo mai pesare aveva certamente pensato che io, nipote di avvocato e figlio di medico, sarei diventato qualcosa del genere nella vita: più tranquillo e agiato certamente.

Non solo per me, ma per un nutrito gruppo di universitari, la freschezza dell’impresa giornalistica che Eugenio Scalfari ed altri avevano iniziato pochi anni prima con la nascita di un giornale rivoluzionario (nel linguaggio oltre che nella grafica e soprattutto nel formato) qual era La Repubblica,  aveva contribuito in modo sostanzioso al richiamo alla vitalità culturale e politica che ci affascinava. L’impresa che respiravamo, quella che si potesse mettere mano al destino collettivo attraverso un giornale, alla potenza delle idee che intorno ad esso potevano formarsi e che attraverso di esso potevano essere diffuse, era un richiamo fortissimo oltre che un’emozionante suggestione. Quando nel 1986 uscì “La sera andavamo in via Veneto”, straordinario documento che Scalfari ha regalato, secondo me, soprattutto ai giornalisti, quegli entusiasmi furono catalizzati: Il libro racconta la politica di diversi decenni ma anche la straordinaria vicenda de “Il Mondo” di Pannunzio, un giornale di qualità oggi impensabile e una storia imperdibile per chiunque si interessi di comunicazione. Ma a rendere quel libro una pietra miliare per me (e non solo per me) era l’atmosfera che ci ha regalato. Esisteva ancora in Via del Corso il caffè Aragno, quello nel quale quei giornalisti s’incontravano e incontravano personalità politiche e della cultura; c’era ancora la terza saletta, quella dove un gruppo di essi pensò e tracciò i primi lineamenti de La Repubblica. C’era (e ancora c’è) l’edicola poco distante da quel caffè dove, dopo la mezzanotte, potevamo comprare la prima edizione dei quotidiani romani del giorno dopo. Lo facevamo come fosse un gesto religioso. Scalfari, soprattutto, ci comunicò la bellezza, oltre l’importanza fondamentale, di un comune sentire: quanto fosse squadra il gruppo che sognava l’impresa giornalistica, quanto “noi” ci fosse in quella vita faticosa, difficile e incerta ma tanto affascinante.

Nella vita professionale ho avuto (e in parte ancora ho) il privilegio di lavorare e anche di dirigere dei giornali. Ho netta ancora oggi la sensazione di completezza e l’orgoglio di sentirsi parte integrante di un gruppo che s’impegna, tutto insieme, per raggiungere il risultato. I giornali quotidiani, specie quelli piccoli, sono davvero quasi un miracolo che si compie ogni giorno. La loro produzione dura 24 ore e, appena finite, iniziano le successive 24. Ogni mattina inizia la raccolta delle notizie, durante il giorno la redazione del giornale, durante la notte la stampa e alle prime ore dell’alba la distribuzione. Tutto deve essere perfetto, se s’inceppa il meccanismo non sei in edicola in tempo utile per la prima distribuzione e perdi almeno il 20% delle copie. Tassativo. Il contenuto, quel contenuto, è il risultato del lavoro di tante menti, sensibilità, abilità e anche speranze. Siano esse ambizioni professionali, affermazione della propria personalità, necessità di espressione, semplice lavoro. L’importante è che sia tutto funzionale al progetto. I giornali, l’ho sempre detto, sono soprattutto un progetto in continuo divenire, che si modifica ogni giorno.

Ecco perché l’informazione istantanea che iniettiamo con i mezzi potentissimi della tecnologia oltre ad apparirmi scialba mi sembra sempre più inutile. Nessuno, come nella spinta ideale che portò alla nascita di Repubblica, oggi può pensare qualcosa che si avvicini a un panorama ideale che vedeva come orizzonte l‘Occidente, come impegno la modernizzazione del Paese, la liberazione della sinistra dai suoi demoni con l’affermazione della coesione sociale e dell’emancipazione affinché diventasse radicale nei principi, liberale nel metodo e riformista nella pratica di governo.

I giornalisti non sono meno bravi, sensibili e ambiziosi di un tempo ma sognano di meno e si sentono sempre meno parte di quel “noi” che, come per Scalfari e compagni, sotto sotto, pensava di poter cambiare l’Italia e che, in parte, c’è riuscito.

Può cambiare il supporto, uno schermo anziché un foglio di carta, ma lo spirito, quello spirito, è di vitale importanza.